… una disponibilità che ho sempre avuto nei confronti delle arti applicate, della sperimentazione e del tentativo di rinnovarle con progetti contemporanei. L’ho fatto con tutti i materiali e tutte le tecniche che ho incontrato in Italia e fuori d’Italia. Si tratta a mio avviso di una grande opportunità per sperimentare ancora oggi come una volta.
Ugo La Pietra
Arch. La Pietra, può raccontarci qualcosa dei progetti che l’hanno visto coinvolto negli ultimi due anni?
Sono stato molto impegnato sia nel campo delle mostre che in quello editoriale. Per quanto riguarda le mostre, le più importanti sono state una grande antologica che si è tenuta alla Triennale di Milano nel 20151 e una altrettanto importante presso il Museo MAGA di Gallarate2, oltre a molte mostre sperimentali a cui sto ancora lavorando. Proprio in questi giorni sto completando il lavoro per una mostra che si terrà a Roma, sul Palatino, a partire da fine giugno3. Mi sono impegnato in parecchie mostre sia di ricognizione storica che dedicate ad argomenti nuovi, quali l’ambiente urbano inteso come territorio di analisi e di sperimentazione o il tema del genius loci, ossia il rapporto fra il territorio e le sue risorse. A questo proposito sto lavorando ad una collezione di ceramiche dedicate all’Umbria e in particolare al bucchero (una ceramica usata già ai tempi degli Etruschi) che verrà presentata in autunno.
Per quanto riguarda invece l’attività editoriale, assai importante, ho pubblicato alcuni libri piuttosto completi sulla mia ricerca nel senso più generale della parola, fra i quali Il segno randomico4 e altri. Proprio in questi giorni ne ho presentato uno alla Fonderia Artistica Battaglia di Milano5 e un altro lo presenterò fra pochi giorni.
Davvero un gran numero di progetti! Sappiamo però che lei lavora molto anche all’estero. In questi ultimi anni si è dedicato a qualche progetto anche fuori dall’Italia?
Sì, ho lavorato a diversi progetti importanti, come alcune mostre al Centre Pompidou di Parigi, in particolare una dedicata all’arte povera. In una di queste occasioni il museo, chegià possiede diverse mie opere, ne ha acquistate altre. Un altro progetto importante all’estero è la mostra dedicata al design radicale che si terrà a New York nei prossimi mesi.
Lavorando all’estero nota differenze rispetto all’Italia?
Ne noto eccome, e di profondissime. Diciamo pure che oltrepassare le Alpi significa entrare in un mondo completamente diverso. Basti pensare che il Centre Pompidou ha comprato 70 mie opere, il FRAC di Orléans ne ha circa 30-40, il MAMC di Saint-Étienne7 e il MAC di Lione8 mi hanno dedicato un ambiente intero, mentre in Italia i musei non acquistano niente ed è persino difficile regalare loro dei pezzi, perché dicono di non avere spazio. All’estero i musei non si limitano a conservare, ma svolgono un’intensa attività divulgativa. Da noi i musei sono pochi e hanno difficoltà a reperire i mezzi sia per l’acquisto di opere che per la ricerca. La differenza principale fra l’Italia e l’estero riguarda però il mondo di quello che io chiamo craft, ossia le arti applicate, diffuse dagli Stati Uniti al Giappone passando per l’Europa settentrionale, ma assenti da noi: noi non abbiamo mai coltivato questo tipo di arte, privilegiando invece il disegno industriale. In altre parole, da decenni ormai abbiamo abbandonato la cultura del fare, dell’artigianato e delle arti decorative, per le quali, a differenza di quanto accade all’estero, non esistono musei, gallerie, collezionismo e neppure un mercato. È insomma tutto il sistema dell’arte ad essere diverso.
Ancora non si notano cambiamenti nel mondo italiano dell’arte?
Qualcuno sì, per via delle contaminazioni provenienti dal resto del mondo, ma si tratta di timidi accenni iniziati solo negli ultimi anni, quando con il decadere del disegno industriale si è un po’ ritrovato il rapporto con il craft europeo. L’Italia è però in una posizione molto arretrata rispetto all’estero. Mi riferisco all’assenza, in Italia, di gallerie di arte applicata contemporanea. Come dicevo prima, da noi non c’è un mercato, un collezionismo di questo tipo di arte. Ma soprattutto da noi la gente non conosce i materiali e le diverse lavorazioni: quasi nessuno in Italia saprebbe distinguere un mosaico realizzato a mano da uno industriale, o uno vetroso da un altro composto da pietre, fra ceramica e porcellana, fra vetro e cristallo. Queste conoscenze sono assai comuni all’estero, dove il craft è un’arte diffusa. Da noi invece no, perché da troppi anni le arti applicate non vengono più proposte. Fino agli Anni Cinquanta, ad esempio, erano comuni le collezioni di merletti, ma poi in Italia è scomparso tutto, mentre all’estero si è continuato a lavorare in quel senso.
In questo quadro quindi l’artigianato non può dare possibilità di sopravvivenza ai giovani italiani…
In realtà l’artigianato in Italia non ha mai dato possibilità di sopravvivenza, perché è sempre rimasto confinato a nicchie di lavorazione destinate quasi esclusivamente al turismo, con i classici souvenirs. Ad esempio le ceramiche di Caltagirone o di Vietri sul Mare continuano ad essere prodotte, ma perché si tratta di zone turistiche dove i visitatori continuano ad acquistare oggetti della tradizione, ma è difficile trovare una tradizione rinnovata che dia possibilità di sopravvivenza. Come dicevo è ancora lontano il momento in cui in Italia potremo vedere una galleria di ceramiche o di vetro rinnovati, non tradizionali. L’artigianato moderno, quello che potrebbe dare da vivere a un giovane designer, deve ancora trovare la sua strada commerciale. Per questi artisti, d’altra parte, trovare uno sbocco è davvero difficile: all’estero si devono confrontare con una concorrenza agguerrita (perché diciamocelo, in questo campo fuori dall’Italia sono più bravi di noi), mentre in Italia non c’è mercato. A dire la verità stanno cominciando a nascere delle prime forme di mercato grazie ad artisti che realizzano oggetti di basso costo e li vendono su Internet, ma parliamo comunque di una piccola nicchia. L’artigianato contemporaneo, quello che potremmo chiamare design contemporaneo fattuale o artigianale, deve ancora trovare una sua collocazione.
Un’Italia dunque dove innovazione e tradizione sono ancora nettamente distinte e non parlano fra di loro…
Guardi, le posso fare un esempio tratto dalla mia esperienza personale. Io per trent’anni ho tenuto mostre ed esposizioni in tutta Italia utilizzando, quando ancora esisteva, l’artigianato di tradizione per farne delle opere di innovazione. Queste opere, però, sono rimaste ferme lì, a livello di sperimentazione. Non sono mai entrate in commercio, perché in Italia non esiste un editore, un’azienda capace di editare ad alto livello oggetti realizzati da artigiani di tradizione in piccola serie.
Capisco. Certo sarebbe auspicabile…
Naturalmente. In questa sede non abbiamo modo di ripercorrere tutta la storia, ma le posso citare degli esempi molto precisi. Ad esempio, l’unica galleria di ceramica contemporanea in Italia svolge solo attività con gli stranieri, perché nel nostro Paese è ancora impossibile immaginare di presentare e vendere ceramiche contemporanee italiane. E se parliamo degli altri materiali è ancora peggio. Io personalmente negli ultimi trenta o quarant’anni ho lavorato a tantissimi progetti con i mosaicisti di Spilimbergo, di Ravenna, di Monreale, ho realizzato numerosissimi oggetti con vari materiali, con la pietra leccese, la pietra lavagna, l’alabastro di Volterra, ma si è trattato solo di esperienze sperimentali per mostre.
In tutto questo che ruolo ricopre l’etica professionale?
Purtroppo, in una società dominata da interessi personali e guadagno, parlare ancora di etica mi sembra un po’ pretenzioso. Certo sarebbe bello, ma ormai ne parlano forse solo le persone della mia età, le generazioni passate. Etica significa avere un comportamento corretto rispetto alla società e all’economia, ma questo oggi non accade. È sotto gli occhi di tutti. Basti vedere come viene trattato il mondo del design. Lei saprà naturalmente che a Milano ci sono moltissime scuole di design…
Certo.
E lei lo sa che queste scuole sono quasi tutte private e finanziate da multinazionali? Negli ultimi anni sono state tutte acquistate e questo le fa capire quale tipo di etica ci sia dietro. Nel mondo del design accade la stessa cosa che succede per i beni di consumo: quando di mezzo ci sono le multinazionali, sappiamo bene di dover avere dei sospetti sul discorso etico. Nella disciplina del progetto l’etica non viene più insegnata.